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ANTONIO CALABRÒ: “Ci attende un nuovo umanesimo industriale”

Le nostre interviste al tempo del coronavirus

Antonio Calabrò è Vicepresidente di Assolombarda, Direttore della Fondazione Pirelli, Presidente “Museimpresa” e della società editrice de “Il Cittadino”, giornalista e scrittore. Nato a Patti (Messina) nel 1950, vive e lavora a Milano e Roma. È stato responsabile Cultura di Confindustria. Ha ricoperto l’incarico di direttore dell’agenzia di stampa Apcom e di editorialista economico de “La 7”. È stato anche direttore editoriale del gruppo Il Sole 24 Ore e vice-direttore del quotidiano. Ha lavorato a Repubblica, Il Mondo e L’Ora, ha collaborato con Panorama, L’Europeo e Paese Sera e ha diretto il settimanale Lettera Finanziaria e il mensile Ventiquattro. Insegna all’Università Bocconi e all’Universita’ Cattolica di Milano. Membro del Comitato di presidenza di Assimpredil, Vicepresidente del Centro per la cultura d’impresa Consigliere delegato e direttore della Fondazione Pirelli, Consigliere di amministrazione di Nomisma, Università di Milano Bicocca, Touring Club, Orchestra La Verdi Milano, Fondazione Pier Lombardo, Camera Arbitrale di Milano. Membro dell’Advisory Board della Fondazione Unipolis, di UniCredit Lombardia e del Comitato Editoriale di “Aspenia”. Autore di libri e pubblicazioni: Da via Stalingrado a Piazza Affari. Storia dell’Unipol (1988), Dissensi (2002), Agnelli. Una Storia Italiana (2004), Intervista ai capitalisti (2005), Orgoglio Industriale (2009), Cuore di Cactus (2010), Bandeirantes – Il Brasile alla conquista dell’economia mondiale (con Carlo Calabrò 2011), “Il riscatto – L’Italia e l’industria internazionale” (con Nani Beccalli Falco, 2012), “La morale del tornio – Cultura d’impresa per lo sviluppo” (2015), “I mille morti di Palermo” (2016), “L’impresa riformista” (2019) e, con altri autori, “Europa nonostante tutto” (2019). Ha curato le raccolte di saggi: L’alba della Sicilia, Un viaggio imperfetto, Frontiere, Il capitale, Mercati.

 

Dott. Calabrò, nelle nostre interviste già pubblicate, abbiamo abbracciato tanti temi, ascoltato tanti manager, economisti, uomini delle istituzioni. In ambito culturale ci siamo confrontati con autorevoli nomi del teatro, della musica, dei musei, dell’associazionismo. E le Fondazioni culturali come stanno reagendo alla prova Covid-19?

Stanno lavorando per tenere vive, attraverso tutti gli strumenti digitali a disposizione, le relazioni con i propri interlocutori, i pubblici di riferimento: gli studiosi e i ricercatori, le scuole, tutte le persone che ritengono che proprio la cultura sia una componente essenziale dell’identità italiana, un cardine della nostra qualità della vita, segnata dall’amore per la bellezza. Dunque, sono stati organizzati tour virtuali delle mostre e degli archivi storici, programmi didattici per le scuole, attività a distanza, incontri e webinar. Il confronto di opinioni e gli approfondimenti, la diffusione della conoscenza e la ricerca hanno trovato nel web un buon terreno di lavoro.

Cultura e aziende: rapporto non sempre facile. Lei è anche Vicepresidente di Assolombarda. Pensa che dopo questo cataclisma, dove se ne esce tutti con le ossa rotte, possa cambiare qualcosa?

La cultura è anche un asset della competitività economica: le nostre imprese hanno successo sui mercati globali perché capaci di dare valore al loro “umanesimo industriale”, a una “cultura politecnica” che unisce saperi umanistici con conoscenze scientifiche e tecnologiche. Il design italiano affonda le sue radici nelle culture di territori ricchi di manifatture impegnate nel “bello e ben fatto”. E parecchi settori industriali, dalla meccatronica alla robotica, dall’automotive alla gomma e alla plastica, dalla chimica alla farmaceutica, dalla moda all’arredamento e all’agro-alimentare crescono grazie all’intelligenza flessibile e resiliente capace di valorizzare al massimo qualità, funzionalità e bellezza. Sono convinto che proprio in Italia, il binomio “impresa e cultura” vada sostituito con un’espressione più pertinente: “impresa è cultura”. Fare impresa è una profonda scelta culturale. Ed è proprio questa caratteristica che ci aiuterà a riprenderci dopo la crisi da pandemia e recessione.

Cosa, secondo lei, è stato sottovalutato in questi mesi. Quali urgenze e necessità avverte come prioritarie?

Si è sottovalutata la portata dirompente della crisi sanitaria, anche se il sistema della sanità pubblica ha dato una grande prova di sé, soprattutto per l’impegno di medici e infermieri, ricercatori e personale sanitario in genere. Siamo stati presi alla sprovvista, anche se da anni scienziati e studiosi economici e sociali ammonivano sui pericoli di epidemie da virus sconosciuti e sulle relazioni pericolose tra stravolgimenti dell’ambiente e devastanti malattie. Alla dimensione terribile del Covid 19 in tutto il mondo si è aggiunta una drammatica recessione, per alcuni aspetti peggiore sia della Grande Crisi finanziaria del 2008 sia del crollo di Wall Street del 1929. Parecchi governi hanno reagito in modo confuso. L’Europa, finalmente, dopo egoismi e incertezze, ha messo a disposizione enormi risorse. Che però, qui in Italia, devono arrivare rapidamente alle persone, alle famiglie, alle imprese. E la forza delle imprese è fondamentale, nel processo di ripresa. Bisogna insistere su un’economia della produttività e del lavoro, dell’innovazione e della qualità, mentre ancora in troppi, anche in ambienti di governo, pensano a un’economia del sussidio, al protezionismo, al vecchio e fallimentare mito dello “Stato padrone”. Altrimenti, guariremo dal Covid 19 ma fracasseremo il nostro sistema economico e sociale, il lavoro e il benessere per incapacità politica di rilanciare il Paese.

Come ne usciremo complessivamente da questa faccenda. Siamo solo in fase 2. E poi?

Si tratta di avere chiaro che rimettere in movimento l’economia e la società non è affatto come girare un interruttore. Siamo di fronte alla necessità di un vero e proprio “cambio di paradigma”: bisogna pensare a un’economia che passi dalla quantità alla qualità, dal Pil (il prodotto interno lordo) al Bes (l’indice Istat del benessere equo e sostenibile) e sia fondata sui valori e non più solo sul “valore per gli azionisti” (i profitti, il corso delle azioni, i dividendi). C’è una profonda riflessione in corso, tra le imprese, gli economisti, le persone di cultura, i sindacati. Ed è una discussione utile. Questa crisi ci impone di ripensare le mappe delle produzioni, degli scambi, dei consumi. Di costruire una globalizzazione meno ingiusta e squilibrata, di passare dal free trade, la frenetica libertà di scambi che alimenta anche rapacità finanziarie al fair trade, un sistema di commerci internazionali attento ai diritti delle persone, alla sicurezza e alla qualità dei prodotti, all’ambiente. Il nostro orizzonte europeo è quello della sostenibilità, ambientale e sociale. E le imprese italiane, proprio sulla sostenibilità, hanno caratteristiche d’avanguardia e possono usarle come leva competitiva. L’uscita dalla crisi è la costruzione di un’economia migliore.

Conversazione con Giuseppe Pino, Owner & Founder Pino Management & Partners

 

 

 

 

 

 

 

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