Ancora metriche da comprendere e logiche da dimenticare
“Vengono qui e ci portano via le aziende.” Un mantra!
Quante volte lo abbiamo sentito dire. Forse in parte è anche vero, ma solo in alcuni contesti e situazioni specifiche. In verità poche, rispetto al clamore mediatico, spesso medi e grandi gruppi industriali e, mi verrebbe da dire: “Per fortuna!” La storia di quelle imprese sarebbe quasi per certo finita lì se non fossero arrivati capitali ed investitori stranieri in soccorso.
Ma se vogliamo esaminare lo scenario, seppur in breve spazio, tuttavia con maggiori dati ed elementi di analisi, dobbiamo partire da un altro punto di osservazione: “Perché l’Italia attrae ancora pochi investitori? Cosa accade invece quando ciò avviene?”
Partiamo proprio da quest’ultimo punto. Per certo le aziende oggetto di attenzione d’investitori stranieri crescono di più, aumentano in competenze manageriali ed in visibilità, contribuiscono ad un armonico sviluppo delle politiche territoriali dei luoghi dove sono insediate.
Se ci mettiamo, invece, dalla parte dell’investitore con altrettanta certezza possiamo dire che nessuno “mette soldi” in un’azienda che vuole “svuotare”. La dotazione di capitale necessario è sempre commisurata e congrua alle esigenze del “fare impresa” , mai abborracciata o asfittica, di convenienza o predatoria. Tecnicamente –una prima cartina di tornasole- è immediatamente riscontrabile nei servizi di amministrazione generale ed in particolare di tesoreria, altro dato interessante, quasi sempre ad effetto immediato, il miglioramento delle governance.
Infatti, non è un caso, che le aziende che attraggono maggiormente interessi di capitali esteri sono quelle con in organico “manager esterni” (con un’incidenza statistica di ben oltre il 90%) o quelle in procinto di farlo, magari con una condivisione proprio nel momento della partecipazione. Molto meno, purtroppo, quelle ancora a carattere padronale o gestite da famiglie, magari anche attraverso passaggi generazionali e fino a quando tiene la “catena di trasmissione” e con determinate caratteristiche tutto sommato di “apertura” (il dato registrato e di poco sopra al 40%).
Le imprese che aprono a capitali stranieri conservano indici di performance migliori: mediamente un punto e mezzo percentuale in termini di crescita occupazionale, ben un 3% in termini di aumento di produttività.
Tutto quanto, ovviamente, in un contesto di regole certe e non disruptive. In definitiva quello che cerca un investitore, a maggior ragione se estero, e che spesso si fatica a trovare già nel tessuto imprenditoriale italiano. In un panorama turbolento già di suo -dal piccolo, al medio, al grande- ancora prima di addossare responsabilità, che esistono e son altrettanto ben evidenti, al “sistema Paese”; molto carente ed in ritardo –nel merito- in normativa fiscale e tributaria, da “far spaventare” anche chi si presenta con le migliori intenzioni e credenziali.
Ma, a ben osservare, altri colli di bottiglia, rendono ancora poco fluidi i meccanismi di avvicinamento: spesso si parte dalla “domanda” e non dall’ “offerta”, manca una reale e concreta “value proposition” ed anche i canoni di “attrazione investimenti” sono carenti e seguendo la logica del “fai da Te!” e senza l’ausilio di competente approccio consulenziale; più che mai necessario in questo ambito.
Talvolta è purtroppo assente una vera e propria cultura ed accettazione dell’investitore.
Molti piani si bloccano talvolta per dettagli insignificanti, piuttosto che su aspetti generali e di sostanza sicuramente più importanti . A tutto ciò, spesso e volentieri, dobbiamo aggiungere altri vizi tipicamente italici; non li elenco per pudicizia, però ognuno di noi -anche consulenti- rifletta e faccia ogni tanto “mea culpa”.
Giuseppe Pino
Owner & Founder “Pino Management & Consulting Studio”
Vice Presidente di Confassociazioni
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