Quattro riflessioni in libertà e controcorrente
In questi ultimi anni, vista -forse- anche una proliferazione di strumenti finanziari che il legislatore ha ulteriormente messo a disposizione di chi opera in ambito culturale (non sempre per tutti, vedi “Art Bonus”) è altrettanto necessario prendere coscienza, come effetto contrario, di una perdita di “valore” e “significato” reale di cosa vuol dire veramente fare impresa culturale in Italia. Quanto è difficile. Perché da altre parti è molto diverso. Ma non è questo il tema (magari prossimamente lo tratterò) su cui oggi voglio richiamare l’attenzione.
Prima riflessione. Vedete, spesso si è rovesciato il problema o, lo si è visto, come un vero e proprio difetto di origine. Quante volte abbiamo sentito dire: “Lavoro su questo progetto perché ci sono bandi dedicati.” Magari a livello europeo, piuttosto che nazionale o locale. Oppure: “Partecipo a questa selezione perché una Fondazione bancaria o con vocazione culturale mette a disposizione queste risorse a chi se le aggiudica.” Intendiamoci: nulla contro questo metodo ed approccio. Ed aggiungo: magari ci fossero più opportunità e risorse. Però mi si consentirà anche di muovere una “critica benevola”: così difficilmente si incentiva a fare impresa culturale vera! Il metodo della sovvenzione e del sostegno rimane lo strumento finanziario primario; se non l’unico. Quando va bene, con l’ausilio di qualche sparuto sponsor, sovente mosso più da “spirito caritatevole” piuttosto che vero “mecenatismo”. Il modello d’imprenditoria culturale e di “partecipazione”, come si direbbe in gergo industriale ancora prima che manageriale, resterà solo un lontano miraggio. Chi se ne dovrebbe occupare viene visto male ed anche etichettato come “affarista”, quando va bene! Per poi, invece, essere corteggiato nelle più svariate forme e fino allo sfinimento, quando magari punta i piedi e dice: “Allora faccio da solo!”
Seconda riflessione. Il concetto d’impresa culturale, già di per sé, declina un nuovo approccio, apre ad un “nuovo mondo”, anzi meglio: concepisce “un nuovo modo” di fare cultura. Se vogliamo “occupazione” nel settore e non “più occupazione” (utopia: ad oggi difetta ancora molto il primo step; semplicemente occupazione!) dobbiamo rivedere anche i canoni tradizionali degli organismi non profit e sovente basati unicamente su volontariato o “buon cuore”. Non certo per creare dualismi e competizione, ma per ricondurre attività nei rispettivi ambiti. Forse, e ne sono del tutto certo e convinto, dovrebbero essere non complementari fra loro ma sussidiari. Quindi una domanda: perché mancano strumenti specifici al riguardo? Chi spaventano? Il legislatore rifletta! Perché di solito anche le progettualità (pubbliche e private) muovono da posizioni e motivazioni molto differenti; anche nei prodromi. Ad esempio, solo due aspetti sostanziali e dirimenti: nel progetto culturale finanziato spesso e volentieri si modellano attività sulla richiesta e testo del bando. Nel progetto culturale imprenditoriale, a differenza, si opera con modelli economico-finanziari caratteristici e rispondenti a prassi ed usi aziendali. Banalmente, ma nemmeno tanto: anche i criteri di contabilizzazione e rendicontazione sono totalmente differenti e rispondono a logiche diverse. Non è un caso!
Terza riflessione. Parlare di “servizi alla cultura” non dovrebbe più scandalizzare e spaventare nessuno. Eppure non è così, tanto più che l’ostruzionismo talvolta ancora imperante poggia su principi che molti “cultori del sacro verbo” vedono come dogmi inalienabili e insindacabilmente non violabili. Quali ritenere, ad esempio, che qualificazione e valorizzazione del patrimonio culturale, in tutta la sua più ampia declinazione, sia dovere (privilegio!?) di una casta di dotti e sapienti investiti non si capisce bene da chi. Per poi assistere, nella maggioranza dei casi, e registrare proprio fra questi accademici, la maggiore schiera di professionalità meno qualificate a quanto vorrebbero preservare. Badate bene: fare “impresa culturale” non vuol dire fare “commercio culturale”. Chi sostiene questo è nella maggioranza dei casi in malafede. Sottovaluta, in queste organizzazioni private (come piace definirle in maniera sufficiente) competenze specialistiche e qualificate pari, se non talvolta superiori. Basta guardare profili, board e professionalità impiegate. Dove -proprio perché privati ed operanti a mercato- non ci si può permettere di diventare, come sovente accade nel pubblico, il luogo dove impiegare chi non è andato bene in un’altra mansione del medesimo ente.
Quarta ed ultima riflessione. Lapidaria! Forse è veramente arrivato il momento per un sano e costruttivo confronto fra le parti invece di continuare ad ergere steccati e muri. Nei numerosi convegni dedicati al tema che in più parti d’Italia si svolgono promossi da diversi soggetti istituzionali e di rappresentanza, c’è almeno un’apparente volontà di dialogo. Ma, poi, bisogna sempre fare i conti con la realtà: dove la teoria è ancora cosa ben diversa dalla pratica.
Giuseppe Pino – Owner & Founder Pino Management & Partners
Utilizzando il sito, accetti l'utilizzo dei cookie da parte nostra. maggiori informazioni
Questo sito utilizza i cookie per fornire la migliore esperienza di navigazione possibile. Continuando a utilizzare questo sito senza modificare le impostazioni dei cookie o cliccando su "Accetta" permetti il loro utilizzo.